Note Americane - Verso Philadelfia - inamericacondickens

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Il viaggio da New York a Philadelphia si effettua in ferrovia e in traghetto e richiede di solito dalle cinque alle sei ore. Abbiamo preso posto sul treno alla fine di un bel pomeriggio e mentre guardavo il luminoso tramonto, la mia attenzione è stata attratta da qualcosa di straordinario che usciva dalle finestre della vettura per uomini davanti alla nostra. Dapprima ho creduto che fossero delle piume gettate al vento da persone industriose che avessero sventrato dei materassi. Ma ben presto mi sono reso conto che, in realtà, quelle persone stavano solo sputando.
Quanto al numero di viaggiatori presenti nella vettura per garantire una tale doccia incessante di espettorazioni, non saprei precisarlo. Quella sera siamo arrivati in città sul tardi. Al momento di coricarmi, ho visto sull’altro lato della strada un maestoso edificio di marmo bianco, il cui aspetto lugubre e spettrale affliggeva lo sguardo. Ho attribuito questo effetto all’influenza tenebrosa della notte e, al mio risveglio, mi aspettavo di vedere una folla di persone salire e scendere per i gradini o camminare sotto il portico. Ma anche l’indomani la porta era ermeticamente chiusa e l’aspetto freddo e tetro della costruzione continuava a perdurare . Si sarebbe detto che solo la statua di Don Guzman potesse avere affari da trattare all’interno delle sue mura sinistre.
Mi sono affrettato ad informarmi sul suo nome e sulla sua destinazione e il mio stupore si è dissolto. Era la Tomba di svariate fortune, la Grande Catacomba degli investimenti: la memorabile Banca degli Stati Uniti.
La chiusura di questo fabbricato, con le rovinose conseguenze che ne sono scaturite, ha amareggiato la città di Philadelphia, che ne risente ancora l’effetto e sembra molto abbattuta e scoraggiata.

   La città è graziosa, ma la sua geometria regolare ha qualche cosa che sconcerta. Dopo avervi passeggiato per un’ora o due, sentivo che avrei dato qualunque cosa per camminare in una strada tortuosa. L’influenza del suo quaccherismo sembrava rendere più rigido il colletto del mio cappotto e più larga la falda del mio cappello. Sentivo la mia capigliatura restringersi e ordinarsi in un taglio liscio e le mie mani unirsi di loro spontanea volontà. Mio malgrado, sognavo di alloggiare in Mark Lane, sulla piazza della Borsa, e di ammassarvi una fortuna speculando sull’andamento del grano.
Philadelphia è abbondantemente provvista di acqua che viene rovesciata, fatta correre e sprizzare da ogni parte verso la città. La stazione idrica, costruita su un’altura vicina, è una costruzione al tempo stesso utile e ornamentale, tenuta con la stessa cura e meticolosità di un giardino pubblico. In questo punto l’acqua del fiume è contenuta da uno sbarramento ed è trasportata attraverso condotte forzate verso i grandi contenitori, che alimentano i piani superiori delle case a un costo insignificante.
Fra i numerosi edifici pubblici c’è un eccellente ospedale, amministrato senza settarismo dai quaccheri, con grande beneficio
di quelli che vi si curano, una biblioteca vecchiotta e tranquilla, che porta il nome di Franklin, la Borsa situata in un edificio elegante e l’ufficio postale. All’ospedale quacchero è esposto un quadro di West, a beneficio del fondo della sua istituzione. Esso raffigura il Messia che guarisce, una tela rappresentativa della fattura del maestro quanto quelle che si possono vedere altrove. Solo il gusto del lettore può decidere se essa sia degna o meno di elogi.
Nella stessa sala si può ammirare un caratteristico ritratto pieno di vita eseguito dal signor Sully, un famoso pittore americano.

   Il mio soggiorno a Philadelphia è stato breve, ma ho molto apprezzato quello che ho visto dei suoi abitanti. Per attenermi a considerazioni generali, direi che vi si conduce un’esistenza più provinciale che a Boston o a New York, e che in questa città civile aleggia un’atmosfera di raffinatezza e di spirito critico che porta le persone ad apprezzare i cortesi dibattiti sui temi più diversi, da Shakespeare alla musica suonata con i bicchieri, come succede nel Vicario di Wakefield. Non lontano dalla città si innalza il superbo edificio di marmo del futuro College Girard, ancora in costruzione, fondato da un ricco gentiluomo, oggi deceduto. Se questo edificio seguirà il progetto originale, sarà il più sontuoso edificio dei tempi moderni. Ma il lascito è oggetto di contestazioni e, in attesa del giudizio, sono stati sospesi i lavori. Ma come in altri casi simili l’impresa avrà un giorno o l’altro successo.
Alle sei del mattino, quando abbiamo preso il battello per andare da Philadelphia a Washington, la temperatura era molto fredda.
Nel corso della traversata, come in altre occasioni successive, abbiamo incontrato alcuni Inglesi in viaggio per affari in questo paese dove si erano stabiliti e che in patria erano probabilmente dei piccoli fattori o dei gestori di bottiglierie di campagna. Fra gli uomini che affollano i trasporti pubblici degli Stati Uniti, questi sono spesso i compagni più sgradevoli e insopportabili. Ai tratti spiacevoli dei peggiori viaggiatori americani, i nostri rurali aggiungono una dose mostruosa d’insolente sufficienza e di tranquilla presunzione di superiorità. Per il loro approccio di grossolana familiarità e di indiscrezione impudente, che rappresenta forse una bramata rivincita sul nostro abituale riserbo, essi superano ogni esemplare indigeno caduto nel mio campo di osservazione. Nel vederli e ascoltarli, mi sentivo patriottico a tal punto da accettare di pagare una multa ragionevole pur di gratificare un’altra nazione dell’onore di averli come figli.

   E’ venuto per me il momento di confessare, senza alcuna dissimulazione, che il predominio delle due odiose pratiche di masticare tabacco e sputare, di cui Washington si può considerare la capitale, aveva cominciato verso quest’epoca ad essermi molto meno gradevole, per giungere presto a essere ripugnante e nauseante. Questa abitudine immonda è ammessa in tutti i luoghi pubblici d’America. Nelle aule di giustizia il giudice, il banditore, il testimone, l’imputato, i giurati, gli spettatori hanno tutti la propria sputacchiera, come se un numero così grande di persone provasse il bisogno di sputare senza sosta.
Negli ospedali ci sono degli avvisi affissi sui muri che invitano gli studenti di medicina a non sporcare le scale e a spedire il loro succo di tabacco dentro ai recipienti previsti a questo scopo. Negli edifici pubblici si implorano i visitatori di far schizzare l’essenza delle proprie cicche – le tavolette di tabacco compresso da masticare che qui ho sentito chiamare plugs da alcuni signori esperti in delicatezze di questo genere - nelle sputacchiere nazionali invece che ai piedi delle colonne di marmo. Ma ci sono dei luoghi dove questa abitudine fa parte dei pasti, delle visite mattutine e di tutte le occasioni mondane. A Washington lo straniero che segue il mio itinerario troverà questa pratica ostentata e fiorente in tutta la sua spaventosa noncuranza, per questo non deve pensare - come è accaduto a me, con mia grande vergogna - che i turisti che lo hanno preceduto ne abbiano esagerato l’ampiezza. La cosa è in sé un eccesso insuperabile di villania.
Sul battello a vapore c’erano due giovani signori, armati di pesanti canne e con il colletto della camicia rovesciato, come si usa qui, che, dopo aver sistemato due sedie in mezzo al ponte a quattro passi di distanza l’una dall’altra, hanno tirato fuori la scatola del tabacco e si sono messi a masticare. In meno di un quarto d’ora, questi giovani di belle speranze avevano sparso attorno a sé un copioso rovescio di pioggia gialla, che formava una specie di cerchio magico sulle assi lavate, nel quale nessun intruso osava arrischiarsi e che provvedevano continuamente a rinfrescare, prima che si seccasse in qualche punto. Questo accadeva prima di colazione e riconosco di essere stato incline alla nausea. Ma guardando con attenzione uno degli sputatori, ho visto chiaramente che era ancora un principiante e che provava una specie di imbarazzo. Questa scoperta mi ha riempito di gioia e, dopo aver visto il suo viso impallidire e la pallina di tabacco fremere per il supplizio segreto nella guancia sinistra mentr’egli continuava a masticare e a sputare per seguire l’esempio del suo amico più grande, gli avrei gettato le braccia al collo per chiedergli di continuare così per ore.

   Siamo scesi tutti in cabina, dove ci attendeva un’abbondante colazione. La fretta e la confusione non erano maggiori che in Inghilterra in simili occasioni, ma c’era una maggiore cortesia di quella che si trova nelle nostre stazioni di posta. Verso le nove siamo arrivati alla stazione ferroviaria e abbiamo preso posto nelle carrozze. A mezzogiorno, siamo scesi per attraversare un largo fiume a bordo di un nuovo battello a vapore, che ci ha deposti nel punto in cui la strada ferrata proseguiva sulla sponda opposta. Ci siamo imbarcati su nuove vetture e, nell’ora successiva, abbiamo superato due piccoli corsi d’acqua, il Great Gunpowder e il Little Gunpowder, su dei ponti di legno lunghi un miglio. La superficie dell’acqua era resa scura da alcuni stormi di anatre dal dorso grigio, che abbondavano nei paraggi in quella stagione dell'anno e che hanno una carne deliziosa.
I ponti di legno non avevano parapetti ed erano appena più larghi del treno che, nell’eventualità di un incidente, anche minimo, sarebbe precipitato nel fiume. Essi sono delle opere d’arte avvincenti e gradevoli, una volta che le si è lasciate alle spalle.
Abbiamo fatto tappa a Baltimora per la cena. Trovandoci ormai nel Maryland, siamo stati serviti per la prima volta da schiavi. Ricevere prestazioni da esseri umani che possono essere comprati e venduti e rendersi in questo modo corresponsabili della loro condizione, non è una sensazione molto invidiabile. Forse, in una città come questa, l’istituzione si presenta in una forma meno rivoltante e più moderata, ma è pur sempre schiavitù e, benché non fossi colpevole di questo stato di cose, ne ricavavo un sentimento di vergogna e di colpa.
Dopo cena siamo tornati al treno e abbiamo preso posto nelle vetture dirette a Washington. Era ancora presto e alcuni uomini e ragazzi senza niente da fare e curiosi degli stranieri, si sono raggruppati, come d’abitudine, attorno alla mia vettura, hanno abbassato i finestrini, hanno infilato la testa e le spalle all’interno, puntellandosi con i gomiti per sorreggersi e hanno cominciato a scambiare commenti sulla mia fisionomia, con molto distacco, come se io fossi stato una sagoma impagliata. Mai ero stato edotto con tanta sincerità sul mio naso, sui miei occhi, sull’effetto prodotto dalla mia bocca e dal mio mento e sull’aspetto della mia testa vista da dietro. Alcuni di questi signori erano soddisfatti solo se esercitavano anche il senso del tatto, mentre i ragazzi - che in America sono sorprendentemente precoci - non lo erano neanche così e tornavano continuamente alla carica. Si sono presentati davanti a me molti presidenti in erba con il berretto in testa e le mani in tasca e mi hanno squadrato per due ore buone, rianimandosi ogni tanto con degli strofinii al naso, con delle sorsate d’acqua dalla brocca e con dei gridi lanciati ad altri monelli che passavano per la strada, del tipo: “E’ qui!”, “Dai, vieni! Porta i tuoi fratelli!” e altri pressanti inviti del genere.

 Abbiamo raggiunto Washington verso le sei e mezza del pomeriggio. All’arrivo, la vista sul bell’edificio con le colonne corinzie del Campidoglio, che sorge su di una altura nobile e maestosa, era magnifica, ma per quella sera non ho visto altro perché ero molto stanco e desideroso di andare a dormire appena arrivato all’hotel.
La mattina seguente, dopo aver fatto colazione, sono andato a passeggiare per un’ora o due e, al ritorno, ho aperto le finestre davanti e dietro per contemplare la città. Washington era là, fresca nel mio animo e sotto i miei occhi.
Prendete le parti peggiori di City Road e di Pentonville, (o gli squallidi sobborghi di Parigi, dove ci sono le case più povere), mantenendo intatte tutte le loro particolarità, ma specialmente le piccole botteghe e le abitazioni dei rigattieri, dei gestori di bettole miserabili e dei venditori di uccelli. Incendiate tutto, ricostruitelo in legno e gesso, ampliatelo un po’, aggiungete una porzione di St. John’s Wood, mettete delle imposte verdi e delle tende bianche e rosse alle finestre, arate le strade, piantate un rozzo tappeto erboso in tutti i posti dove non ci dovrebbe essere, erigete tre edifici imponenti in marmo e pietra possibilmente dove non passa mai nessuno, battezzateli Ufficio Postale, Ufficio dei Brevetti e Tesoreria; infliggete un caldo torrido la mattina, un freddo glaciale il pomeriggio e un tornado di vento e di polvere di tanto in tanto; lasciate un selciato senza pietre dove sarebbe naturale trovare una strada e otterrete la città di Washington.
         
   Il nostro hotel è composto da una lunga fila di piccole case che costeggiano la strada e si affacciano nella parte posteriore su di un cortile, in cui è appeso un grande triangolo. Quando c’è bisogno di un domestico, qualcuno batte da uno a sette colpi sul triangolo, secondo il numero della casa dove è richiesta la sua presenza. Ma nessuno dei domestici richiesti si presenta mai, perciò questo gioioso strumento suona a pieno ritmo per tutto il giorno. Nel cortile la biancheria è stesa ad asciugare, le schiave vanno e vengono di corsa con un fazzoletto di cotone in testa, i servitori neri passano e ripassano con dei piatti in mano, due grossi cani giocano su di un mucchio di mattoni posto al centro della piazzetta, un maiale con la pancia al sole grugnisce: “Che bella vita!”. Nessuna di queste creature viventi, uomini, donne, cani, maiale si preoccupano minimamente del triangolo, che non cessa di tintinnare furiosamente.
Dalla finestra sulla strada abbraccio con lo sguardo una lunga fila di case a un piano, tutte sparpagliate, in fondo alla quale c’è un lugubre terreno abbandonato invaso dalle erbacce, che sembra un pezzo di campagna devastato e abbandonato. In questo spazio aperto sorge una costruzione di legno bizzarra, simile a un oggetto meteorico caduto dalla luna, somigliante a una chiesa, con un palo da bandiera della sua stessa altezza e con un campanile appena più largo di una cassa da tè. Sotto alla mia finestra c’è una piccola stazione di vetture. I cocchieri, che sono degli schiavi, prendono il sole chiacchierando pigramente sugli scalini dell’hotel. Le tre case più vistose del vicinato sono anche le più misere. Su di una - un negozio che ha la vetrina sempre vuota e l’uscio sempre chiuso - è scritto a grossi caratteri THE CITY LUNCH. Nella seconda, che sembra l’entrata di servizio di un palazzo e invece è una casa indipendente, si possono trovare delle ostriche preparate in tanti modi diversi. Nella terza è situata la piccolissima bottega di un sarto, dove si confezionano, su ordinazione, dei pantaloni su misura.
Washington è a volte chiamata la Città dalle magnifiche prospettive, ma sarebbe più appropriato chiamarla la Città dalle magnifiche aspirazioni. Nello sguardo a volo d’uccello dal Campidoglio si coglie il vasto disegno del suo ambizioso progettista francese. I suoi tratti principali sono costituiti dai viali spaziosi che partono dal nulla e non vanno da nessuna parte, dalle strade lunghe miglia senza case, traverse, abitanti; dagli edifici pubblici a cui manca solo il pubblico per essere completi, dagli abbellimenti per le grandi arterie a cui mancano le grandi arterie da abbellire. Si è indotti a pensare che, a fine stagione, le case lascino la città insieme ai loro proprietari. Per chi ama le belle città, essa è un banchetto da Barmecida, un luogo in cui l’immaginazione si diverte a vagare, un monumento alla memoria di un progetto defunto senza un’iscrizione che ne riporti la grandezza passata.
E’ probabile che Washington resterà tale e quale. Quando la città fu scelta per essere sede del governo, c’era il proposito di prevenire le gelosie e i conflitti di interesse dei diversi Stati e la sua lontananza dalle masse era una considerazione non trascurabile neanche in America. Essa non possiede né commerci né affari perché, all’infuori del presidente e dei suoi funzionari, dei membri del governo e del parlamento, degli impiegati, dei gestori di hotel e di pensioni, dei fornitori di beni alimentari, non ha quasi abitanti. Il posto è molto insalubre e ci vivrebbero in pochi se non fossero obbligati a farlo. E’ probabile che le correnti rapide e irriflessive dell’emigrazione e della speculazione non scorreranno mai verso acque così cupe e stagnanti.

   La caratteristica principale del Campidoglio sono le sale dove si riuniscono le due Camere. Al centro dell’edificio c’è una bella rotonda, di 96 piedi di diametro e di altrettanti di altezza, la cui parete circolare è divisa in nicchie decorate da affreschi raffiguranti fatti storici. Quattro di questi affreschi sono opera del colonnello Trumbull, membro dello stato maggiore di Washington all’epoca dei fatti, dettaglio che ne accentua l’interesse, e raffigurano episodi memorabili accaduti durante gli scontri al tempo della Rivoluzione. Recentemente, in questa sala è stata collocata una grande statua di Washington, opera dello stesso autore. Si tratta sicuramente di un’opera di grande qualità, ma, rispetto al modello, ho trovato l’espressione del viso piuttosto dura e un po’ artificiosa. Avrei anche preferito vederla collocata sotto una luce migliore.
Il Campidoglio ospita una biblioteca gradevole e spaziosa. Dal balcone della facciata, oltre alla vista dall’alto sul paesaggio di cui ho appena parlato, Si gode di una bella vista sulla campagna circostante. Fra le opere che lo decorano c’è una rappresentazione della Giustizia, di cui si legge sulla guida: “All’inizio, l’artista si proponeva una maggiore nudità della statua, ma è stato avvertito che il sentimento collettivo del paese non l’avrebbe accettata.
Per troppa prudenza, è arrivato all’estremo opposto.” Povera Giustizia! In America la si è conciata con abiti ben più singolari di quelli sotto a cui essa langue nel Campidoglio. Speriamo che nel frattempo abbia cambiato sarto e che non sia stato ‘il sentimento collettivo del paese’ a confezionare il costume sotto al quale essa dissimula oggi la sua graziosa figura.
      
    La camera dei rappresentanti è una bella sala spaziosa di forma semicircolare, sostenuta da imponenti colonne. Una parte della galleria è riservata alle signore, che prendono posto nelle prime file ed entrano e escono come a uno spettacolo o a un concerto. Il seggio presidenziale è molto alto rispetto al pavimento ed è coperto da un baldacchino. Ogni parlamentare dispone di una poltrona e di una scrivania, considerata da alcuni inopportuna in quanto induce a sedute lunghe e a discorsi prosaici. La sala è gradevole all’occhio, ma inadeguata per quanto riguarda l’acustica. Il Senato, di dimensioni più ridotte, sfugge a questo limite e risponde all’uso per cui è stato concepito. Non c’è bisogno di precisare che le sedute si tengono di giorno e che la procedura parlamentare è ricalcata su quella della vecchia metropoli.
Mentre visitavo le altre stanze, mi è stato chiesto se fossi stato favorevolmente impressionato dai capi dei legislatori di Washington, intendendo con questo non i loro leader, ma le loro teste in senso letterale, quelle dove crescono i capelli e attraverso la cui forma si esprime il carattere frenologico di ogni legislatore. Quasi ogni volta lasciavo il mio interlocutore sbigottito e pieno di indignata costernazione rispondendogli che “No, non ricordavo di essere stato minimamente sconvolto”. E, qualunque siano i rischi a cui vado incontro, devo reiterare qui il mio diniego, esponendo le mie impressioni nel modo più breve possibile.
In primo luogo – e questo deriva forse da uno sviluppo imperfetto del mio organo della venerazione – non ricordo di aver mai perso i sensi né di aver versato lacrime di gioia e di orgoglio alla vista di un corpo legislativo. Ho affrontato la camera dei Comuni da uomo e la camera dei Lords senza debolezze, se non una certa sonnolenza. Ho assistito alle elezioni municipali e della contea senza sentire il bisogno di danneggiare il mio cappello lanciandolo trionfalmente in aria né di rovinarmi la voce esaltando a squarciagola la nostra gloriosa Costituzione, la sublime purezza e indipendenza dei nostri elettori, l’impeccabile integrità e autonomia dei nostri parlamentari, qualunque fosse il partito vincente. Ma il fatto di aver respinto i violenti attacchi alla mia fermezza può essere indice di un temperamento freddo e insensibile, quasi glaciale. Di conseguenza, le mie impressioni sulle colonne viventi del Campidoglio di Washington devono essere ricevute con l’indulgenza che questa libera confessione richiede.
Ho visto nel corpo istituzionale un gruppo di uomini uniti nel sacro nome della Libertà e del Libero Arbitrio, che attestano nell’insieme dei dibattiti la casta dignità di queste divinità gemelle ed esaltano i Principi Eterni a cui sono legati i loro nomi, la loro reputazione e quella dei loro compatrioti davanti agli occhi ammirati del mondo intero?
        
   Non era passata una settimana da quando un vegliardo canuto, gloria duratura della terra che gli ha dato i natali, benemerito della patria come i suoi avi e del quale si conserverà il ricordo molto dopo che i vermi nati dalla sua corruzione saranno diventati polvere, era comparso davanti all’assemblea per parecchi giorni, con l’accusa di aver osato vilipendere il commercio che ha per oggetto degli uomini, delle donne e i loro figli futuri.
E tutto questo mentre la Dichiarazione unanime dei tredici Stati Uniti d’America, che annuncia solennemente che tutti gli uomini nascono uguali e ricevono dal Creatore il diritto inalienabile alla Vita, alla Libertà e alla Ricerca della Felicità, era esposta al pubblico in una cornice dorata, perché tutti la ammirassero e mostrata agli stranieri non con vergogna, ma con fierezza.
Non era passato un mese da quando questa stessa assemblea aveva inteso, senza emozionarsi, uno dei suoi membri lanciare imprecazioni non usate neanche da un mendicante ubriaco e minacciare di tagliare da un orecchio all’altro la gola di uno dei pari. Egli sedeva là, in mezzo a loro, come un brav’uomo qualsiasi e non oppresso dal sentimento generale di sdegno che l’assemblea avrebbe dovuto avere.
Non era passata una settimana da quando un altro membro, che aveva rivendicato la libertà di esprimere i sentimenti dei suoi elettori e di far conoscere le loro richieste in seno al governo, compiendo così il proprio dovere verso quelli che l’avevano mandato là, stava per essere giudicato colpevole e fatto oggetto di una severa censura. Il suo crimine era certamente grave.
Alcuni anni prima, egli si era alzato in piedi a dichiarare: “Un convoglio di schiavi dei due sessi, certificati buoni riproduttori, incatenati gli uni agli altri con dei ferri, stanno passando nella strada sotto alle finestre del vostro Tempio dell’Uguaglianza! Guardate!” Ma i cacciatori lanciati alla ricerca della felicità appartengono a specie diverse e avanzano armati in modo differente. Alcuni di essi considerano un diritto inalienabile quello di mettersi alla ricerca della propria felicità con in mano una frusta, un gatto a nove code, dei ceppi e dei collari di ferro, suonando i corni e lanciando grida in elogio alla libertà, al suono delle catene e infliggendo zebrature sanguinanti.
Di che sponda erano i numerosi legislatori che si scambiavano rozze minacce, parole e colpi come quelli a cui si abbandonano gli scaricatori di carbone quando dimenticano le buone maniere? Di tutte le sponde. Ogni seduta conosceva aneddoti simili e gli attori erano tutti presenti.
       
   Ho mai visto in questa assemblea uomini che correggessero nel nuovo mondo alcune delle menzogne e dei vizi di quello vecchio, che si prendessero cura di ripulire i viali della vita pubblica, che lastricassero il cammino melmoso del Potere e della Posizione sociale, che dibattessero e legiferassero per il bene comune e non riconoscessero altro partito all’infuori del proprio Paese?
Ho visto in loro il pervertimento abietto di un macchinario politico virtuoso, forgiato con gli utensili peggiori: spregevoli frodi elettorali, corruzione di funzionari, attacchi vili agli avversari, giornali infami come scudo e penne stipendiate come pugnali, assoggettamento vergognoso a furfanti mercenari che vogliono essere presi in considerazione ogni giorno e ogni settimana in cui seminano nuovi fermenti di desolazione insieme ai loro pari, come i denti del dragone della favola. Essi mettono in atto tutto salvo che l’acutezza, dimostrano compiacenza verso le cattive inclinazioni dell’opinione pubblica e un’abile soppressione delle sue buone influenze. La lista di tutto ciò che si annidava ai quattro angoli della sala gremita è riassumibile in una sola parola: Fazione Disonesta, nella forma più depravata e impudente.
Ho visto fra di loro l’intelligenza, la sottigliezza, il cuore patriottico, sincero e onesto, dell’America? Qua e là delle gocce del suo sangue e della sua vita, ma esse colorano appena il flusso di avventurieri giunti per spirito di lucro. Il gioco di quegli uomini e dei loro organi traviati consiste nel rendere così feroci, brutali e distruttive per il rispetto di sé le lotte politiche che tutte le persone sensibili e scrupolose si tengono in disparte, mentre loro e i loro simili possono far valere le proprie vedute egoiste senza incontrare opposizione. Così continuano i più bassi di questi miserabili alterchi e coloro che in altri paesi, grazie alla loro intelligenza e alla loro posizione, aspirerebbero a fare le leggi, qui cedono il campo e indietreggiano il più lontano possibile da quel degrado.
E’ inutile dire che nei partiti e fra i rappresentanti del popolo presenti nelle due Camere vi sono personaggi di grande reputazione e competenza. Si è già fatto il ritratto di quelli più eminenti, conosciuti anche in Europa, e non vedo ragioni di derogare alla regola che mi sono imposta di non menzionare alcun individuo in particolare. Basti aggiungere che sottoscrivo pienamente ciò che di più lusinghiero è stato scritto su di loro e che i rapporti interpersonali, gli scambi di vedute che abbiamo avuto, mi hanno ispirato non quello che sostiene il discutibile proverbio, ma una grande ammirazione e rispetto.

   Questi uomini sono sorprendenti per chi li incontra, difficili da ingannare, pronti nell’azione, energici come leoni, dei Crichton per la diversità dei talenti, degli Indiani per la fiamma nello sguardo e nel gesto, degli Americani per gli slanci potenti e generosi. Essi rappresentano bene in patria l’onore e la saggezza del proprio paese quanto il loro distinto ministro alla corte britannica ne sostiene l’altissima reputazione all’estero.
Durante il mio soggiorno a Washington, mi sono recato quasi ogni giorno alle assemblee delle due camere. In occasione della mia prima visita, una proposta del presidente, a cui lo scrutinio ha poi dato ragione, aveva creato una divisione fra i rappresentanti. Durante la mia seconda visita, una risata ha interrotto il discorso del membro che aveva la parola. Questi allora, come un bambino che sta litigando con un altro l’ha contraffatta, aggiungendo che ben presto “avrebbe fatto abbassare la cresta al suo onorevole avversario”. Ma in genere le interruzioni sono rare e l’oratore viene ascoltato in silenzio. I battibecchi verbali, tuttavia, sono più numerosi che da noi e le minacce più frequenti di quelle che ci si scambia nelle società civili che conosciamo, anche se non è ancora stata importata l’imitazione dei versi di animali da cortile dal parlamento del Regno Unito. La figura del discorso più praticata e apprezzata sembra essere la ripetizione della stessa idea o parvenza di idea con parole nuove e la domanda che viene posta all’uscita non è: “Che cosa ha detto?”, ma: “Per quanto tempo ha parlato?”. Queste, peraltro, non sono che forme esacerbate di un principio che ha corso anche altrove.
Il Senato è un’assemblea decorosa e piena di dignità, i cui dibattiti si svolgono con solennità e in modo più disciplinato. Le due stanze sono decorate da bellissimi tappeti, ridotti però in uno stato impossibile da descrivere dall’indifferenza generale verso le sputacchiere di cui ogni onorevole membro è provvisto e abbelliti dai motivi formati dagli spruzzi e dalle spennellature in ogni direzione. Mi limito a raccomandare a ogni straniero di non guardare per terra e di infilarsi un guanto prima di tirare su il portafoglio o altro che fosse caduto.

   Di primo acchito è sorprendente vedere tanti onorevoli membri con il viso gonfio e si è appena meno colpiti nello scoprire che questo proviene dalla quantità di tabacco che essi riescono a stivare nell’incavo della guancia. E’ sconcertante vedere una di queste onorevoli personalità riversa in poltrona, con i piedi appoggiati sul tavolino, intenta a confezionarsi una cicca con l’aiuto di un temperino e ad espellere quella vecchia come con un fucile ad aria compressa.
Sono stato sorpreso nel constatare che i più anziani non sempre erano quelli con la mira più precisa e questo mi ha indotto anche a dubitare dell’abilità generale nell’uso del fucile, di cui in Inghilterra ci hanno riempito la testa fino alla noia. A molti signori venuti a incontrarmi è capitato di mancare la sputacchiera da cinque passi di distanza. Uno di essi – affetto di sicuro da miopia - a una distanza di tre passi non si è accorto che la finestra era chiusa, anziché aperta come credeva lui. Un giorno in cui mangiavo fuori ero seduto davanti al fuoco in compagnia di due signore e di alcuni uomini, in attesa del pranzo. Uno di essi, per ben cinque volte, non è riuscito a raggiungere il camino, ma voglio credere che fosse perché davanti al parafuoco c’era uno scalino di marmo bianco, che doveva essere più comodo e convenirgli meglio.
L’Ufficio dei Brevetti di Washington offre un esempio eccezionale dell’ingegnosità e dello spirito d’intraprendenza degli Americani. Il grandissimo numero di modellini che contiene rappresenta le invenzioni degli ultimi cinque anni soltanto, dato che un incendio ha distrutto la collezione precedente. L’elegante struttura dell’edificio dà l’idea del progetto, anche se per ora i lavori sono fermi e solo un lato su quattro è costruito. L’Ufficio Postale è un edificio massiccio e molto bello e in uno dei suoi reparti, in mezzo a una collezione di articoli rari e curiosi, sono sistemati i regali offerti agli ambasciatori americani dai potentati presso cui essi erano accreditati. La legge proibisce agli ambasciatori di tenere per sé quei regali. Ho trovato tutto questo per niente lusinghiero per l’onore e la probità nazionali. Difficilmente si può parlare di elevazione morale quando si considera possibile che un uomo di alta reputazione e condizione si lasci corrompere, nell’esercizio delle sue funzioni, dall’offerta di una tabacchiera, di una sciabola riccamente incastonata o di uno scialle orientale e senza dubbio la Nazione che ha fiducia nei suoi servitori ha delle opportunità di essere meglio servita di quella che fa pesare sui propri dei sospetti così meschini e miserabili.

   Nei sobborghi di George Town c’è un collegio dei Gesuiti, situato in posizione magnifica e, per quanto ho potuto giudicare, ben amministrato. Molte persone che non appartengono alla Chiesa cattolica approfittano di queste istituzioni e delle opportunità che esse offrono per l’educazione dei loro figli. Le alture sovrastanti il fiume Potomac sono molto pittoresche e sono risparmiate, immagino, dalle insalubrità di Washington. A questa altitudine l'aria è fresca e vivificante quanto è bruciante in città.
La dimora del presidente somiglia più di ogni altro edificio, sia dentro che fuori, a un club-house inglese. Il parco ornamentale che la circonda è percorso da viali e ornato da giardini graziosi e piacevoli alla vista, ma con l’effetto sgradevole di essere stati finiti il giorno prima, una cosa che non si addice all’esibizione di simili bellezze.
Mi ci sono recato la mattina dopo il mio arrivo, condotto da un personaggio ufficiale, che ha avuto la bontà di presentarmi al presidente. Dopo essere entrati nel grande cortile e aver suonato due o tre volte il campanello senza ottenere risposta, abbiamo percorso senza altri indugi le stanze del piano terra, come facevano altri signori, molti dei quali avevano il cappello in testa e le mani in tasca. Alcuni erano in compagnia di signore a cui descrivevano il posto, altri erano seduti su sedie o canapè, altri ancora sbadigliavano tristemente, sfiniti dall’apatia. Ma la maggior parte di essi pensava soprattutto a sottolineare la propria superiorità, non avendo niente di particolare da fare là. Alcuni osservavano da vicino il mobilio delle stanze, come per assicurarsi che il presidente, che era lungi dall’essere popolare, non avesse fatto sparire qualche pezzo di arredamento o venduto l’immobile a proprio beneficio.
Dopo aver fatto scorrere lo sguardo sugli oziosi seduti nel bel salottino che si apriva su di una terrazza con una vista magnifica sul fiume e sulla campagna circostante e aver bighellonato in una stanza di grandi dimensioni, chiamata il Salone Orientale, siamo saliti al primo piano, dove alcuni visitatori attendevano di essere ricevuti dal presidente. Un nero vestito alla buona e con le pantofole gialle, che compiva silenziose evoluzioni di qua e di là e mormorava messaggi all’orecchio dei più impazienti, ha fatto un cenno di intesa in direzione della mia guida ed è scivolato via ad annunciarci. Nell’attesa, ho fatto scivolare lo sguardo in una stanza con una grande scrivania lungo le pareti e delle pile di giornali appoggiati sopra, consultati da diverse persone. Ma non c’era niente per far passare il tempo e il posto era noioso e poco invitante quanto la sala d’attesa di uno dei nostri edifici pubblici o quanto la sala da pranzo di un medico nell’orario delle visite effettuate in casa propria.
         
   Nella stanza c’erano quindici o venti individui. Uno di essi, un vecchio originario del West, alto, magro, muscoloso, scuro e abbronzato, con un cappello marrone posato sulle ginocchia e un gigantesco ombrello fra le gambe, sedeva ritto sulla sedia e fissava il tappeto con aria accigliata, contraendo le rughe profonde ai lati delle labbra, come se avesse appena deciso di affrontare il presidente a quattr’occhi senza peli sulla lingua. Un altro, un contadino del Kentucky, alto più di sei piedi, con il cappello in testa e le mani infilate sotto alle falde della redingote, stava addossato al muro e percuoteva il pavimento con il tacco, come se avesse sotto alle scarpe la testa del Tempo e volesse schiacciarla per ammazzarlo.
Un terzo, un uomo dall’aspetto bilioso, con il viso ovale, i capelli neri e corti, i favoriti e la barba ridotti a ombre bluastre, succhiava il pomello di una grossa canna e ogni tanto lo toglieva dalla bocca per vedere come era diventato. Un quarto si limitava a fischiettare. Un quinto si accontentava di sputare sul tappeto, un’attività esercitata anche dagli altri con grande energia, perseveranza e generosità. Sono sicuro che le domestiche in servizio presso la presidenza hanno dei salari elevati.
Dopo solo qualche minuto di attesa è ricomparso il messaggero nero per condurci in una stanza di dimensioni ridotte, nella quale era seduto il presidente in persona al suo tavolo da lavoro. Aveva l’aria preoccupata e affaticata, una cosa normale, dato che era in guerra con tutto il mondo. Ma la sua fisionomia era dolce e piacevole, i suoi modi cortesi, gradevoli e del tutto privi di affettazione. Per il suo atteggiamento e il suo contegno, lo trovavo singolarmente adatto alla sua posizione.
Essendo stato informato che l’etichetta della corte repubblicana con molta ragionevolezza autorizzava un viaggiatore come me a declinare un invito a pranzo che cadeva qualche giorno dopo la mia partenza già fissata, senza che questo rappresentasse una cosa sconveniente, sono tornato una sola volta in questa casa, in occasione di una delle grandi assemblee generali tenute fra le nove e mezzanotte e bizzarramente chiamate levées.
          
   Vi sono andato verso le dieci in compagnia della mia sposa. Il cortile era ingombro di gente e di vetture e non c’erano regole molto precise da rispettare all’arrivo e alla partenza. Non c’erano agenti di polizia per calmare i cavalli in preda al panico, strattonando le briglie o brandendo il bastone davanti ai loro occhi e sono pronto a giurare che nessun innocente è stato picchiato sulla testa né colpito duramente allo stomaco o sulla schiena e neanche immobilizzato con qualcuno di questi mezzi delicati o arrestato per non aver circolato. Tuttavia, non si notava né confusione né disordine. Quando la nostra vettura è arrivata davanti al portico ne siamo scesi con grande facilità e comodità, come se fossimo scortati dall’intero corpo della polizia municipale, senza rumore, bestemmie, urla, indietreggiamenti e scompigli di alcun genere.
Le stanze al pianterreno erano tutte illuminate e nel cortile suonava una banda militare. In una piccola sala, in mezzo a un gruppo che faceva cerchio intorno a lui, c’era il presidente in compagnia della nuora, una donna molto interessante, graziosa e perfetta, che svolgeva il ruolo di padrona di casa. Vicino a loro c’era un personaggio che sembrava avere la funzione di maestro di cerimonie. Non ho visto ufficiali né sorveglianti e non se ne sentiva il bisogno.
Il salone e le sale al piano terra erano eccessivamente gremite di persone di ogni genere e di ogni classe sociale e non c’era sfoggio di toelette costose, anzi, a mio avviso, alcune di esse erano persino ridicole. Ma nessun incidente grossolano o spiacevole è arrivato a inficiare la correttezza e la buona creanza che regnavano. Tutti i componenti di quella folla eterogenea entrata senza biglietti d’ingresso di favore o di inviti scritti, sembravano avere la sensazione di far parte dell’istituzione e di avere la responsabilità di mantenerne l’appropriatezza e la buona reputazione.
D’altra parte, l’accoglienza riservata al mio carissimo amico Washington Irving, appena nominato ambasciatore alla corte di Spagna e che quella sera si trovava fra di loro per la prima e l’ultima volta nella sua nuova funzione, stava a testimoniare che quei visitatori non erano sprovvisti di finezza di gusto, di giudizio delle qualità intellettuali e di gratitudine verso gli uomini che, con la propria reputazione e l’esercizio pacifico dei propri considerevoli talenti, offrono alla patria un’attrattiva nuova e innalzano la sua reputazione all’estero.

   Nella follia della vita politica americana, pochi uomini pubblici sono stati celebrati con la sincerità e l’affetto dedicati a questo prestigioso scrittore. Raramente ho provato più rispetto per un’assemblea pubblica di quello ispiratomi da questa folla entusiasta che, con un movimento generoso e sincero, ha distolto l’attenzione all’unisono dagli oratori verbosi e dai personaggi ufficiali per raccogliersi attorno a quest’uomo dalla carriera discreta, fiero che gli effetti della sua promozione ricadano sul paese e riconoscente per le storie graziose che esso gli ha dispensato. Che possa ancora a lungo offrirci con prodiga mano simili gioielli e che ci si possa ricordare ancora di lui per molto tempo come uomo di valore!
La nostra permanenza a Washington stava per finire e dovevamo rimetterci in viaggio; in quel grande continente, le distanze che avevamo coperto fino a quel momento spostandoci da una città all’altra, erano considerate cosa da nulla.
Pensavo di dirigermi dapprima verso sud, a Charleston. Ma quando ho preso in considerazione il tempo che un simile viaggio avrebbe occupato, il caldo prematuro della stagione, che anche a Washington era stato fastidioso e ho soppesato nella mia mente la sofferenza che mi avrebbe causato il vivere nella costante contemplazione della schiavitù, mentre le occasioni di vederla com’era veramente - per aggiungere qualcosa di concreto ai fatti che già conoscevo - erano incerte, ho cominciato a dar retta al mormorio che avevo già udito in Inghilterra, prima ancora che decidessi di venire qui, e a sognare città che crescevano come i palazzi delle fiabe in mezzo alle foreste selvagge del West.
Il consiglio che ho ricevuto da ogni parte, quando ho cominciato a cedere al desiderio di viaggiare in quella direzione è stato, come al solito, abbastanza funesto; fra i rischi, i pericoli e le scomodità prospettati, le esplosioni dei battelli e la rottura delle diligenze erano quelli minori. Ma disponendo di un itinerario verso occidente disegnato per me dalla migliore e più gentile autorità a cui avrei potuto rivolgermi, e non prestando molta attenzione a quelle notizie sconfortanti, ho deciso in fretta il mio piano d’azione.
Avrei viaggiato verso sud soltanto fino a Richmond, in Virginia, per voltare verso il Far West, dove dò appuntamento ai miei lettori.

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