
Dovevamo effettuare la prima parte del viaggio in battello e, dato che si partiva alle quattro del mattino, si passava la notte a bordo. Per questo motivo, proprio quando si apprezzerebbe di più un paio di pantofole e un letto familiare, abbiamo dovuto scendere al molo dove era ormeggiato il battello.
Sono le dieci di sera, forse le dieci e trenta: c’è il chiaro di luna, fa abbastanza caldo e c’è foschia. Il battello, simile a un’arca di Noè per bambini, con le macchine sul tetto, si muove pigramente su e giù, andando a sbattere pesantemente contro la palizzata del molo, mentre le increspature del fiume giocano con la sua vecchia carcassa scombiccherata. Il molo è a una certa distanza dalla città. Non c’è nessuno in giro dopo che la carrozza se n’è andata, una debole lampada o due sul ponte del battello sono gli unici segni di vita. Appena i nostri passi risuonano sulle assi, una negra grassa, che madre natura ha fornito di un voluminoso posteriore, emerge da una scala buia e accompagna mia moglie alla cabina delle signore, dove ella si ritira, seguita da un’imponente sacco di cappotti e soprabiti pesanti. Io decido coraggiosamente di non andare a dormire e di passare la notte a passeggiare su e giù lungo il molo.
Comincio la mia passeggiata – pensando a ogni sorta di persone e cose lontane e a niente di vicino – per mezz’ora. Poi salgo di nuovo a bordo e guardo l’ora alla luce di una delle lampade, ma deve essersi fermato. Mi chiedo cosa stia facendo il fedele segretario che mi sono portato dietro da Boston. Sta cenando con il nostro ex padrone di casa - senza dubbio è come minimo Maresciallo - per celebrare la nostra partenza e ne avrà almeno per altre due ore. Ricomincio a camminare, ma diventa sempre più scuro, la luna tramonta e, con questo buio, giugno mi sembra lontanissimo; l’eco dei miei passi mi rende nervoso. E poi fa freddo e camminare su e giù senza compagnia in un luogo così solitario è un ben misero divertimento. Così break la mia ferma decisione precedente e penso che, dopotutto, è forse meglio andare a letto.
Salgo di nuovo a bordo; apro la porta della cabina per uomini ed entro. Forse perché è così silenziosa, mi sembra che non ci sia nessuno. Con orrore e incredulità mi accorgo che è piena di gente addormentata in ogni foggia e disposizione: nelle cuccette, sulle sedie, sul pavimento, sulle tavole e particolarmente attorno alla stufa, la mia odiata nemica. Faccio un passo e sbatto contro la faccia lustra di uno inserviente nero, che è disteso sul pavimento avvolto in una coperta. Salta su, fa una smorfia simile a un sorriso un po’ per cortesia un po’ per il dolore, mi bisbiglia il mio nome all’orecchio e, a tentoni fra le persone immerse nel sonno, mi guida verso la mia cuccetta. Stando in piedi accanto ad essa conto i dormienti. Quando arrivo a contarne quaranta, decido di non andare oltre e comincio a spogliarmi. Poiché le sedie sono tutte occupate, metto i miei vestiti per terra, sporcandomi le mani, perché il pavimento è nelle stesse condizioni dei tappeti del Campidoglio e per la stessa ragione. Dopo essermi spogliato solo parzialmente, mi arrampico sul mio ripiano e per qualche minuto tengo la tenda scostata, mentre do un’altra occhiata ai miei compagni di viaggio. Dopo di che, la richiudo su di loro e sul mondo, mi giro e mi addormento.

ll necessario da toeletta per i passeggeri consiste di due asciugamani a rullo, tre piccole bacinelle di legno, un barilotto d’acqua e un mestolo per attingerla, sei pollici quadrati di specchio, altrettanto di sapone giallo, un pettine e una spazzola per i capelli e nulla per i denti. Tutti usano la spazzola, ad eccezione di me, e tutti mi fissano perché uso i miei. Due o tre gentiluomini sembrano sul punto di irridermi per i miei pregiudizi, ma non lo fanno. Dopo la toeletta, salgo sul ponte di passeggiata e dò inizio a un paio d’ore di camminata veloce su e giù. Il sole sorge luminoso, stiamo oltrepassando Mount Vernon, dove è sepolto Washington; il fiume è largo e rapido, le sue sponde sono belle. Il giorno arriva in tutto il suo splendore e la sua gloria e diventa a ogni istante più brillante.
Alle otto, facciamo colazione nella cabina, dove ho passato la notte, ma le finestre ora sono spalancate ed è abbastanza fresco. Apparentemente, non c’è fretta né ingordigia nel mangiare. La colazione prende più tempo che da noi, c’è più ordine ed educazione.

I biglietti che ci hanno dato sul battello recano stampato il numero 1, quindi il nostro posto è nella carrozza numero 1. Getto il cappotto sull’imperiale e aiuto mia moglie e la cameriera a issarsi all’interno. C’è solo un gradino e, poiché è posto a una iarda da terra, di solito si usa una sedia per salirvi; quando la sedia non c’è, le signore si affidano alla Provvidenza. La carrozza porta nove persone, dato che fra le due porte - dove noi inglesi mettiamo le gambe - viene sistemata una panca. In questo modo, c’è una sola cosa che risulti più difficile che entrare: uscire. All’esterno, a cassetta, c’è posto per un solo passeggero. Poiché quel passeggero sono io, mi arrampico su, mentre legano i bagagli sul tetto e li ammucchiano in una specie di portabagagli posteriore.

Ma anche questo passa e arriviamo alla strada vera e propria, costituita da una serie di pantani e di buche sabbiose. Un punto pericoloso ci attende a poca distanza: il vetturino nero rotea gli occhi, arrotonda le labbra e guarda dritto fra i due cavalli di testa con l’aria di dire: “Siamo passati spesso di qui, ma questa volta credo che avremo un incidente.” Prende le redini a due mani, le tira forte, mentre fa ballare i piedi sul predellino (pur continuando a restare seduto), come faceva il povero Ducrow quando montava due dei suoi impetuosi corsieri. Arriviamo nel punto critico, affondiamo nel fango fino ai finestrini, ci pieghiamo da un lato formando un angolo di quarantacinque gradi e restiamo piantati là. Dall’interno si levano grida disperate; la carrozza è ferma; i cavalli si dibattono nel fango; anche le altre sei carrozze si fermano e i loro ventiquattro cavalli si dimenano allo stesso modo, per sostenere i nostri e per simpatia verso di loro.
Poi i cavalli si arrampicano di corsa sul pendio ai lati della strada e ridiscendono a velocità spaventosa. E’ impossibile fermarli e al fondo c’è una buca profonda, piena d’acqua. La carrozza sobbalza in modo spaventoso. All’interno tutti urlano. Il fango e l’acqua schizzano da tutte le parti. Il vetturino nero balla come un invasato. All’improvviso, non si sa come, tutto è a posto e ci fermiamo per riprendere fiato.
In due ore e mezza abbiamo percorso circa dieci miglia, senza ossa rotte, ma con molte ammaccature. In breve, coprendo la distanza “come una freccia”.

Questo viaggio singolare termina a Fredericksburg, da dove c’è un treno per Richmond. Il tratto di paese che attraversa era un tempo una campagna fertile, ma il terreno si è esaurito per il sistema di impiegare un gran numero di schiavi a forzare i raccolti, senza rinvigorire la terra. Oggi essa è poco più che un deserto sabbioso ricoperto di alberi. Per quanto desolato e monotono fosse il suo aspetto, sono stato felice di vedervi una maledizione causata da quell’odiosa istituzione che è la schiavitù e ho provato più piacere a contemplare quella terra disseccata che se al suo posto ci fossero state coltivazioni ubertose.
Siamo arrivati all’hotel fra le sei e le sette di sera. Davanti ad esso, in cima a un’ampia scalinata che portava all’ingresso, due o tre cittadini fumavano il sigaro mentre si dondolavano sulle sedie. Abbiamo trovato l’hotel spazioso ed elegante e siamo stati trattati tanto bene quanto un viaggiatore possa desiderarlo. Il clima caldo faceva venir sete e a ogni ora del giorno il grande bar non era mai a corto di clienti e la mescita di cocktail freschi non cessava mai; ma qui la gente sembrava più allegra e gli strumenti musicali, che era un piacere ascoltare, suonavano tutta la notte.

In una vallata fra le colline c’è una spianata conosciuta come il Bloody Run (Valle del Sangue) per il terribile conflitto con gli Indiani avvenuto qui. E’ un posto ideale per un simile combattimento e, come ogni altro luogo associato con le leggende di questo popolo selvaggio destinato a scomparire presto dalla faccia della terra, mi interessava molto.
La città è sede del Parlamento della Virginia e nelle sue ombrose aule legislative alcuni oratori sproloquiavano con tono sonnolento sul caldo di mezzogiorno. A causa delle continue ripetizioni, quelle visioni costituzionali non mi interessavano ormai più di qualche consiglio parrocchiale ed ero lieto di far cambio con una visita a una biblioteca pubblica contenente circa diecimila volumi e di andare in una manifattura di tabacchi, i cui lavoratori erano tutti schiavi.

In questa città c’è il più confortevole di tutti gli hotel, e non sono pochi, di cui ho fatto esperienza negli Stati Uniti: il Barnum’s. Per la prima, e probabilmente ultima volta in America il viaggiatore inglese trova il letto provvisto di tende e, con tutta probabilità, acqua sufficiente per la propria toeletta, cosa tutt’altro che comune.

Dopo un giorno o due di permanenza ho deciso di attenermi strettamente al programma che avevo predisposto, intraprendendo senza ulteriore ritardo il viaggio verso ovest. Di conseguenza, dopo aver spedito a New York i bagagli di cui non avevamo strettamente bisogno, essermi procurato le lettere credenziali per le banche poste sul nostro itinerario, aver contemplato per due sere di seguito il tramonto del sole con un’idea del paese che ci attendeva tanto precisa quanto avrebbe potuto esserlo se avessimo fatto un viaggio al centro della terra abbiamo preso il treno delle otto e mezza del mattino e siamo arrivati a York, lontana circa sessanta miglia, giusto in tempo per cenare all’hotel davanti al quale partiva la diligenza a quattro cavalli diretta ad Harrisburg. La vettura venuta a prenderci alla stazione, sulla quale ho avuto la fortuna di trovare un posto, era buia e fangosa come al solito.
All’inizio il paesaggio era abbastanza privo di interesse, poi, nelle ultime dieci o dodici miglia, è diventato molto bello. La strada serpeggiava attraverso la piacevole valle di Susquehanna. Alla nostra destra scorreva il fiume, disseminato di innumerevoli isole verdeggianti, a sinistra si ergeva una ripida collinetta coperta di pini e di rocce contorte. Scivolando solennemente sull’acqua, la bruma componeva mille forme fantastiche, e la penombra della sera dava a ogni cosa un’aria di mistero e di silenzio che ne ravvivava grandemente l’interesse naturale.
Il ponte che abbiamo attraversato era di legno, coperto da un tetto e chiuso ai lati da due alte pareti, di circa un miglio di lunghezza. La struttura era formata da grandi travi che si incrociavano più volte secondo tutti gli angoli possibili e attraverso i buchi e le aperture si poteva vedere l’acqua giù in basso brillare come miriadi di occhi. Non avevamo lanterne, i cavalli procedevano inciampando e barcollando verso una debole luce lontana e sembrava che il percorso non dovesse mai finire.
Avanzavamo pesantemente, facendo risuonare il ponte di rumori cavernosi e, mentre tenevo la testa abbassata per evitare le travi, non riuscivo a persuadermi che non fosse un brutto sogno. Mi è capitato sovente di sognare di attraversare posti simili e mi dicevo che, anche questa volta, “non poteva essere reale.”
Malgrado tutto, alla fine siamo sbucati nelle strade di Harrisburg, le cui luci scialbe, riflesse dal suolo bagnato, non rischiaravano una città molto allegra. Ci siamo sistemati in un hotel confortevole, più piccolo e meno lussuoso di altri in cui siamo scesi, ma che nel mio ricordo li sorpassava tutti per via del suo direttore, l’uomo più cortese, educato e premuroso che mi sia mai capitato di incontrare.
Essendo la partenza fissata per il pomeriggio, l’indomani mattina sono uscito dopo colazione per andare a perlustrare i dintorni. Mi sono stati mostrati una prigione modello appena terminata, basata sul sistema dell’isolamento, che non annoverava ancora detenuti, il tronco di un albero molto vecchio a cui degli Indiani ostili avevano saldamente legato il primo colono, di nome Harris, salvato dalla tempestiva apparizione di un partito amico sull’altra riva del fiume, la legislazione locale e altre curiosità della città.

Davanti a queste riproduzioni esitanti e tremanti, eseguite da mani che erano in grado di armare la freccia più lunga su di un arco ricavato da un corno di alce, di dividere in due una pietra o una piuma con una palla di fucile, mi veniva fatto di pensare ai sogni di Crabbe ne Il Registro parrocchiale e ai tratti di penna irregolari lasciati da uomini capaci di tracciare un solco perfettamente rettilineo con l’aratro. Non ho potuto impedirmi di nutrire pensieri tristi su questi guerrieri semplici, la cui scrittura e il cui cuore stavano là, in tutta verità e sincerità, che, con il tempo, avevano imparato dagli uomini bianchi a venir meno alla parola data e a cavillare sulla forma e sul merito dei trattati. Mi domando quante volte il credulo Grossa Tartaruga o il fiducioso Piccola Ascia abbiano apposto la loro firma su trattati di cui non era stato rivelato loro il tenore e abbiano sottoscritto cose che non conoscevano, fino al giorno in cui finivano per scatenarsi sui nuovi possessori della terra. Davvero dei selvaggi.
Prima di pranzo il nostro ospite ci ha annunciato che alcuni membri del corpo legislativo avevano l’intenzione di farci l’onore di una visita e per questo ci aveva cortesemente messo a disposizione il piccolo boudoir della sua sposa. Quando l’ho pregato di farli entrare, l’ho visto guardare il grazioso tappeto con un’aria di dolorosa apprensione, ma in quel momento avevo la mente altrove e mi è sfuggito il motivo della sua preoccupazione.
Ma sarebbe stato ben più gradevole se questi signori, senza compromettere la loro indipendenza, non solo avessero ceduto al pregiudizio favorevole alle sputacchiere ma si fossero anche affidati all’assurdità convenzionale del fazzoletto da tasca.
Continuava a piovere abbondantemente e, quando siamo scesi al battello fluviale - il nostro nuovo mezzo di trasporto - il tempo era poco allettante e ostinatamente umido. La vista dell’imbarcazione su cui avremmo trascorso tre o quattro giorni, non era in alcun modo incoraggiante e ha fatto nascere in noi qualche preoccupata supposizione riguardo al modo in cui i passeggeri sarebbero stati alloggiati per la notte, dando origine a un largo ventaglio di interrogativi sulle altre sistemazioni domestiche dei locali interni, che apparivano abbastanza sconcertanti.
L’ aspetto esterno era quello di una chiatta con una piccola casa sopra, mentre dentro essa sembrava la roulotte di un luna park. I signori erano sistemati come gli spettatori dei musei sulle ruote, dove vengono rivelati dei prodigi per un penny. Le signore erano separate da una tenda rossa, come lo sono in quei luoghi i giganti e i nani, per proteggerne in qualche modo la vita privata.
Ci siamo seduti, osservando in silenzio le due file di piccoli tavoli ai lati della cabina, ascoltando lo sgocciolio e il picchiettio della pioggia e lo sciabordio dell’acqua attorno al battello fino all’arrivo del treno, il cui contributo al numero dei nostri passeggeri era l’unico motivo che ci aveva trattenuti dal partire. I nuovi bagagli venivano scaraventati sul tetto della cabina con tale violenza da darci l’impressione di riceverli sulla testa senza la protezione di un copricapo da facchino.
Molti passeggeri nuovi erano bagnati fino alle ossa e quando si sono messi attorno alla stufa, i loro vestiti hanno cominciato a fumare. Senza dubbio l’ambiente sarebbe stato più confortevole se la pioggia battente, che in quel momento cadeva più insistente che mai, avesse permesso di aprire una finestra o se il numero di passeggeri non fosse salito a trenta. Ma non abbiamo avuto il tempo di abbandonarci a queste considerazioni perché stavano attaccando i tre cavalli da alaggio alla gomena. Il ragazzo che cavalcava l’animale di testa ha fatto schioccare la frusta e il timone ha cominciato a gemere e a cigolare. Avevamo cominciato il viaggio.

Poiché la pioggia continuava a cadere persistentemente, sono rimasti tutti sotto coperta. I signori con i vestiti bagnati, ammassati attorno al fornello, ammuffivano a poco a poco, sotto l’effetto del calore. Gli altri erano allungati sulle panche, dormivano di un sonno inquieto con la faccia sul tavolo o camminavano su e giù per la cabina con il rischio, se erano anche solo di statura media, di consumarsi la calotta cranica contro il basso soffitto. Verso le sei sono stati uniti i tavoli per formarne uno solo e tutti si sono accomodati a consumare tè, caffè, pane, burro, salmone, alosa, fegato, bistecche, patate, sottaceti, prosciutto, braciole, sanguinacci e salsicce.
Il pasto è stato divorato con voracità e gli uomini si infilavano in gola le larghe lame dei coltelli e le forchette a due denti più di quanto avessi mai visto fare in precedenza, se non da un illusionista. Tuttavia, nessuno si è seduto prima delle signore o è venuto meno al più piccolo gesto di cortesia che potesse contribuire a dare loro piacere. E nel corso dei miei spostamenti in America non ho visto alcuna donna fatta segno del più piccolo atto di villania o d’inciviltà e nemmeno di disattenzione.
Alla fine del pasto, la pioggia, che sembrava essersi esaurita negli scrosci impetuosi e abbondanti, era quasi cessata, rendendo possibile salire sul ponte. Benché questo fosse molto piccolo e lo spazio fosse reso ancora più esiguo dai bagagli che, ammucchiati al centro sotto a un telone, lasciavano solo una stretta passerella ai lati, lo stare fuori era un grande sollievo, anche se era una scienza andare da un’estremità all’altra senza capitombolare oltre il bordo e cadere nel canale. All’inizio, trovavamo un po’ fastidioso chinarci in fretta ogni cinque minuti, quando l’uomo al timone gridava: “Ponte!”, o allungarci quasi con il ventre a terra al grido di “Ponte basso!”, ma la pratica abitua a tutto e i ponti erano talmente numerosi che ci siamo abituati in poco tempo.

Ho già accennato ai miei dubbi sul modo in cui venivano sistemati i passeggeri per dormire. Sono rimasto nell’incertezza fino alle 11, quando sono sceso sottocoperta e ho visto tre lunghe file di scaffali da libreria appesi ai due lati della cabina, adatti a volumi di formato in ottavo piccolo. Osservando più attentamente quelle suppellettili, meravigliato di trovare un tale corredo letterario in un posto simile, ho scoperto che su ogni scaffale c’erano delle microscopiche lenzuola e coperte. Allora ho cominciato indistintamente/vagamente a capire che il contenuto della libreria era costituito dai passeggeri., che vi si disponevano sopra di taglio e non si muovevano più fino al mattino.
Ciò che mi ha aiutato a giungere a questa conclusione è stata la vista di alcuni di loro che, riuniti attorno al capitano, tiravano a sorte i numeri della lotteria con l’ansia e la passione del giocatore dipinta sul viso. Altri, con un pezzo di carta in mano, cercavano a tentoni il numero corrispondente a quello estratto. Appena lo avevano individuato, si spogliavano immediatamente e vi strisciavano dentro. La rapidità con cui essi passavano dal ruolo di giocatori angosciati a quello di dormienti che russavano sonoramente è uno degli effetti più singolari che abbia mai visto.
Quanto alle signore, esse erano già a letto, dietro a una tenda rossa, che era stata accuratamente tirata e tenuta chiusa al centro con uno spillo; ma i colpi di tosse, gli starnuti, i bisbigli perfettamente udibili ci rendevano consapevole della loro presenza.
La gentilezza del capitano mi aveva procurato un posto vicino alla tenda rossa, un po’ defilato rispetto al grosso dei dormienti. Mi sono ritirato dopo aver ringraziato molto il comandante per la sua premura. Ho misurato la mia cuccetta e ho trovato che non era più grande di un foglio di carta da lettere di Bath. Non sapevo bene come fare per entrarci, ma poiché era in basso, ho deciso di sdraiarmi sul pavimento, di scivolare dentro lentamente fino a fermarmi quando ho toccato il materasso. Sono rimasto coricato sullo stesso fianco per il resto della notte. Fortunatamente,ci sono riuscito. Ma quando ho alzato gli occhi mi sono spaventato a vedere che la sagoma dell’occupante di sopra debordava di un buon mezzo metro e si poteva dedurre che il suo peso rendeva difficile il compito delle sottili corde che lo dovevano sorreggere. Non ho potuto fare a meno di pensare al dolore di mia moglie e di tutta la famiglia nel caso lui fosse caduto giù durante la notte, ma dato che non potevo rialzarmi senza una vera e propria lotta che avrebbe allarmato le signore, e inoltre non avevo alcun altro luogo dove andare, ho chiuso gli occhi davanti al pericolo e mi sono addormentato.
Ci sono due tipi di persone che viaggiano su battelli come questo. Gli irrequieti, che spingono la loro irrequietezza a tal punto da non dormire mai e quelli che continuano a espettorare anche quando dormono e sognano, mischiando così il reale all’irreale. Finché abbiamo navigato sul canale, ogni notte c’era una tempesta di sputi che durava fino al risveglio; una volta il mio cappotto si è trovato al centro di un uragano alimentato da cinque gentiluomini, che si muoveva/procedeva in modo verticale, secondo la legge di Reid sugli uragani, e io sono stato costretto ad allargarlo sul ponte, a spazzolarlo e spruzzarlo con acqua prima di poterlo nuovamente indossare.
Ci alzavamo fra le 5 e le 6 per permettere di smontare gli scaffali, poi alcuni di noi andavano sul ponte, altri si affollavano attorno alla stufa appena accesa perché faceva molto freddo. Qui essi continuavano a prodursi nell’attività notturna e facevano piovere sulla griglia il loro generoso contributo. Le comodità per lavarsi erano molto primitive. C’era una secchia di ferro legata sul ponte con la quale chiunque volesse lavarsi (alcuni erano superiori a questa debolezza) tirava su l’acqua sporca del canale e la versava in una catinella, anch’essa assicurata al battello. Per asciugarsi, c’era un asciugamano che girava su un rullo. Davanti a uno specchio del bar, accanto al pane, al formaggio e ai biscotti, c’erano un pettine e una spazzola a disposizione di tutti.
Alle otto, dopo aver tolto le cuccette e riunito i tavoli, ognuno si trovava davanti tè, caffè, pane, burro, salmone, alosa, fegato, bistecche, patate, sottaceti, prosciutto, alosa, braciole di maiale, sanguinaccio, salsicce. Ad alcuni piaceva mescolare tutte le pietanze e le mettevano insieme nel piatto. E quando le razioni di tè, caffè, pane, burro,…. erano finite e le briciole erano state spazzate via, è riapparso uno dei camerieri nelle vesti di barbiere e ha fatto la barba a chi lo desiderava, mentre gli altri guardavano o sbadigliavano dietro il giornale. Il pranzo era una ripetizione della prima colazione senza il tè e il caffè mentre la cena ne era una copia esatta.

La prima colazione era il pasto meno appetitoso della giornata, perché, in aggiunta ai numerosi e gustosi profumi dei cibi, arrivavano dal piccolo bar vicino gli odori del gin, del whisky, dell’acquavite e del rum, fortemente conditi dal tanfo di tabacco stantio. Molti passeggeri non erano molto scrupolosi riguardo alla propria biancheria intima, che a volte era gialla come i piccoli rivoli di saliva essiccata che avevano agli angoli della bocca. L’atmosfera non era esente da un leggero zefiro che proveniva dai trenta letti appena disfatti, la cui presenza era rammentata dall’occasionale comparsa sulla tovaglia da una varietà di selvaggina che non figurava nel menu).
Tuttavia, ricordo con grande piacere questo strano modo di viaggiare che, almeno ai miei occhi, aveva un suo lato umoristico e fra le molte cose che apprezzavo c’era lo schizzare fuori dall’aria viziata della cabina alle cinque del mattino, senza il colletto della camicia, per avventurarmi sul ponte sporco, attingere dell’acqua ghiacciata, immergervi la faccia e tirarla fuori fresca e arrossata per il freddo; il giretto rapido, compiuto sull’alzaia, fra la toeletta e la colazione, in cui ogni vena e ogni arteria pulsavano di salute; la squisita bellezza dell’alba, quando da ogni cosa sembrava emanare una luce; il pigro abbrivio del battello mentre si era distesi sul ponte a contemplare l’azzurro del cielo nel quale sembrava di essere immersi; lo scivolare silenziosamente in mezzo ai versanti minacciosi delle colline, resi più scuri dagli alberi, turbati a volte da una piccola macchia rossa là in alto, dove uomini invisibili si stringevano intorno a un fuoco; lo scintillio vivo degli astri, non disturbato da rumori di ruote o di macchine, all’infuori del gorgoglio limpido dell’acqua mentre il battello avanzava. Tutte queste erano pure delizie.

Di tanto in tanto, il canale serpeggiava attraverso a una gola solitaria, simile a un valico fra le montagne scozzesi, che di notte riluceva di un luccichio gelido sotto la luna. Le ripide pareti non sembravano avere altro sbocco che il passaggio da cui eravamo venuti, ma la collinetta accidentata si apriva di colpo, nascondendo il chiaro di luna e, man mano che ci addentravamo nella sua lugubre gola, la nostra nuova strada veniva avvolta da tenebre e ombre.


E’ stato divertente scendere sferragliando per una gola scoscesa, mossi solo dal peso delle vetture, e vedere la locomotiva andare giù per la china da sola, ronzando come un grosso insetto, con il dorso verde e oro luccicante sotto il sole. Nessuno di noi sarebbe rimasto sorpreso se essa avesse spiegato le ali e preso il volo. Invece, si è fermata tempestivamente nel momento in cui raggiungevamo il canale, per poi ripartire ansimando su per la salita, prima ancora che noi avessimo lasciato il pontile, con i passeggeri che avevano atteso il nostro arrivo per andare in direzione contraria alla nostra.
Nella serata di lunedì, i fuochi di fornace e i colpi di martello sulle rive del canale annunciavano che ci stavamo avvicinando alla fine di questa parte del nostro viaggio. Dopo aver attraversato un altro posto di sogno, più singolare ancora del ponte di Harrisburg – un acquedotto formato da una vasta camera di legno sopra il fiume Alleghany - siamo sbucati in mezzo a un orribile groviglio di parti posteriori di edifici, di gallerie e di scale bizzarre, come ce ne sono ai bordi dei fiumi, dei canali, dei fossati e del mare: eravamo arrivati a Pittsburg.


