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PITSBURGH - CINCINNATI - inamericacondickens

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   Pittsburg somiglia a Birmingham, in Inghilterra. Per lo meno questo è quello che affermano i suoi abitanti. E a parte le strade, i negozi, le case, i carri, le fabbriche, gli edifici pubblici, la popolazione, forse potrebbe esserlo. La città è coperta da una grande quantità di fumo ed è famosa per le sue ferriere. Oltre alla prigione, conta un arsenale ben concepito e diverse istituzioni. Essa è magnificamente situata sul fiume Alleghany, valicato da due ponti. Le ville dei cittadini più ricchi, di cui sono disseminate le alture circostanti, sono abbastanza graziose. Siamo scesi in un hotel eccellente, dove siamo stati serviti mirabilmente. Il posto, di grandi dimensioni e con un ampio colonnato a ogni piano, era gremito, come sempre.
Siamo rimasti tre giorni. La tappa successiva era Cincinnati, da raggiungere in battello a vapore. Queste imbarcazioni dell’Ovest hanno la tendenza a esplodere con la frequenza di una o due la settimana, perciò era prudente raccogliere indicazioni sulla sicurezza delle navi che facevano scalo sul fiume. Ci è stato caldamente raccomandato il Messenger, di cui si annunciava la partenza da una quindicina di giorni, ma che non era mai partito. Lo stesso comandante non sembrava avere un’idea precisa sull’argomento. Ma dove andrebbe a finire la libertà personale se la legge obbligasse un cittadino libero e indipendente a mantenere la parola data nei confronti del pubblico? Così vanno gli affari e, se dei passeggeri si vedono ingannati, chi dirà: “Bisogna porre un termine a tutto questo”, essendo egli stesso un uomo d’affari?
Non conoscendo le abitudini locali, e impressionato dall’accento di profonda solennità dell’annuncio della partenza, mi sono precipitato a bordo, dove sono arrivato senza fiato. Mi è stato poi detto, in via confidenziale, che il battello non sarebbe partito prima di venerdì 1 aprile. Perciò abbiamo atteso quel giorno molto confortevolmente e siamo saliti a bordo a mezzogiorno.

   Visto dal piazzale sopraelevato, che costituiva il punto d’approdo, e sullo sfondo della riva opposta del fiume, il Messenger non era che uno dei tanti battelli ad alta pressione raggruppati vicino al pontile e non sembrava di tonnellaggio superiore ad altri che erano in acqua. Aveva una quarantina di passeggeri a bordo, senza contare le persone più povere imbarcate sul ponte inferiore. Il disormeggio ha avuto luogo in meno di mezz’ora.
Ci è stata assegnata una cameretta con due cuccette, accanto alla cabina delle signore. La sistemazione era a poppa, dove ci era stato raccomandato di stare, visto che quei battelli avevano la tendenza a esplodere a prua. Era una cautela tutt’altro che superflua, date le circostanze e la frequenza con cui incidenti di questo tipo si sono verificati durante la nostra permanenza nel paese. Inoltre, era un sollievo avere un posto, anche piccolo, dove poter stare da soli. Ogni camera aveva una seconda porta a vetri che si apriva su di una stretta veranda posta sul fianco del battello, dove non c’era quasi nessuno, e dove si poteva stare tranquillamente seduti a guardare il paesaggio mutevole. Perciò abbiamo preso possesso con piacere dei nuovi appartamenti.
Le navi americane da me descritte finora avevano un aspetto diverso da ciò che noi inglesi siamo abituati a veder galleggiare sull’acqua, ma i battelli che si vedono nell’Ovest del paese sono ancora più lontani da ogni nostra idea in proposito.
Innanzitutto, non hanno l’alberatura, i cordami, i paranchi, le manovre e altre attrezzature del genere e nella loro forma non c’è nulla che ricordi la prua, la poppa, le fiancate o la chiglia di un’imbarcazione. Se non fosse che stanno nell’acqua e mostrano i due tamburi delle ruote a pale si potrebbe supporre, per quel che si vede, che siano degli arnesi destinati a compiere qualche servizio ignoto, all’asciutto in cima a una montagna.

   Non c’è un ponte visibile, niente all’infuori di una lunga tettoia nera coperta di frammenti bruciati, sulla quale torreggiano due fumaioli, una rudimentale valvola di sicurezza e il gabbiotto di vetro del timoniere. Poco più in basso, lo sguardo incontra le finestre e le porte delle nostre camerette, che sembrano delle piccole case costruite sulla stessa strada con gusti diversi. L’insieme è sorretto da travi e da pali che poggiano su una chiatta sporca, alta pochi centimetri sulla superficie dell’acqua. Nello spazio fra le sovrastrutture e la chiatta ci sono le macchine e le caldaie, aperte alla pioggia ed ai venti. Se capita di incrociare di notte uno di questi battelli, si vede il fuoco delle caldaie e si sente il rumore che proviene da sotto il fragile castello di legno dipinto; le macchine non sorvegliate compiono il loro lavoro in mezzo alla folla degli oziosi, degli emigranti e dei loro bambini, che si pigiano sul ponte inferiore. Se si pensa che gli uomini che le maneggiano con noncuranza hanno un’esperienza di non più di sei mesi, ci si rende conto che la cosa strana non è il numero degli incidenti, ma l’arrivare a destinazione sani e salvi.
Al centro c’è una cabina stretta, della lunghezza del battello, su cui si aprono le due file di camerette. Una piccola parte della cabina, a poppa, è riservata alle donne, mentre a prua c’è il bar. Il centro è occupato da un lungo tavolo, alle due estremità ci sono le stufe. Sul ponte c’è il necessario per lavarsi, che è appena un po’ meglio di quello che c’era sul battello del canale.
Per quanto riguarda l’igiene personale e le abluzioni, le abitudini degli americani sono trascurate e ripugnanti e io sono portato a credere che questa sia la causa di molte delle loro malattie.
Dovevamo passare tre giorni sul Messenger, per arrivare a Cincinnati il lunedì mattina, salvo incidenti. Ci venivano serviti tre pasti al giorno: la colazione alle sette, il pranzo a mezzogiorno e mezzo e la cena intorno alle sei. Ogni volta veniva messa sul tavolo, a disposizione di tutti, una quantità di piccoli piatti contenenti poche cose, di modo che, anche se l’insieme aveva l’aspetto di un festino, in realtà, salvo che per quelli che andavano matti per le barbabietole a fette, le lamelle di bue affumicato, i complicati miscugli di sottaceti gialli in una salsa a base di mais e di composta di mele o per le zucche, era solo un pasto leggero pronto a tutte le ore.

  Alcuni passeggeri amavano mettere insieme quelle delizie (oltre alle marmellate dolci) per accompagnare e insaporire il maiale arrosto. Di solito quegli uomini e quelle donne, dispeptici, a pranzo e a cena mangiavano delle quantità inaudite di un pane di granturco caldo, favorevole alla digestione quanto un puntaspilli impastato. Chi non seguiva questa abitudine, preferendo servirsi più volte delle pietanze, generalmente leccava il proprio coltello e la propria forchetta, meditabondo, in attesa di decidere che cosa volesse prendere dopo. Poi li tirava fuori dalla bocca per immergerli nel piatto di portata, servirsi e rimettersi all’opera. A cena, da bere c’era soltanto acqua fresca dentro a grandi caraffe. Durante i pasti, nessuno rivolgeva la parola agli altri. Tutti i passeggeri erano molto cupi e sembravano avere dei terribili segreti gravanti sul loro animo. Non c’era conversazione, non c’erano risa, allegria o attività sociale, all’infuori degli sputi, fatti in una complicità silenziosa, attorno alla stufa, quando il pasto era terminato. Gli uomini sedevano a tavola muti e annoiati, come se la colazione, il pranzo e la cena fossero delle necessità naturali, non accompagnate da distensione o distrazione. Dopo aver mandato giù il pasto mandavano giù anche se stessi, in un lugubre silenzio. Se non li si fosse visti ancora legati a questi comportamenti animali si sarebbe stati tentati di concludere che l’elemento maschile della compagnia consistesse in malinconici spettri di contabili che la morte aveva inchiodato alla scrivania, tanto sembravano faticosamente immersi nei loro affari e nei loro calcoli. In confronto a loro, gli impresari di pompe funebri sarebbero sembrati dei buontemponi e, a paragone di questi pasti, una colazione funebre avrebbe un’aria di festa sfrenata.
Inoltre, le persone erano tutte identiche, non c’era diversità di carattere. Viaggiavano con lo stesso scopo, dicevano le stesse cose esprimendole nello stesso modo e andavano dietro le une alle altre come delle pecore. Da un capo all’altro della lunga tavola, era difficile trovare un uomo che fosse diverso dal suo vicino.
Il fiume, vasto e maestoso, in certi punti del suo corso si allarga e si divide in due bracci con un’isola verde e boscosa al centro. Di tanto in tanto ci fermavamo qualche minuto per prendere legna per la caldaia o per far sbarcare dei passeggeri in qualche piccola città o villaggio (uso la parola città perché questo è il nome che si dà qui a qualunque centro abitato); ma le rive erano per lo più inabitate, selvagge, coperte di alberi le cui prime foglie avevano un verde vivo.

   Per miglia e miglia, quelle solitudini erano prive di ogni traccia di vita umana o di impronte di passi; non si vedeva nulla che si muovesse, tranne la ghiandaia, il cui colore così vivo, eppure così delicato, faceva pensare a un fiore in volo.
Di quando in quando si vedeva una capanna di tronchi d’abete, annidata ai piedi di un’altura e circondata da un piccolo terreno disboscato, dalla quale si vedevano levarsi verso il cielo delle volute di fumo azzurro. Era stata costruita all’estremità di un povero campo di grano, disseminato di ceppi simili a quelli dei macellai. Talvolta si era appena finito di dissodare, gli alberi abbattuti giacevano ancora al suolo e si era cominciato a erigere la casupola di tronchi la mattina stessa. Mentre passavamo davanti a questi piccoli pezzi di terra, vedevamo il colono che si appoggiava alla scure o alla mazza e osservava con sguardo malinconico le persone venute dal mondo abitato. I suoi figli scivolavano fuori della capanna provvisoria, simile a una tenda da nomadi posata sul terreno, per battere le mani ed emettere delle grida. Solo il cane ci sbirciava con sospetto prima di levare la testa in direzione del viso del padrone, come se fosse irritato per l’improvvisa interruzione del lavoro ordinario e si disinteressasse alle persone che viaggiavano per loro piacere.
L’acqua del fiume ne aveva eroso le rive in alcuni punti, facendo cadere degli alberi imponenti che si erano abbattuti nella corrente. Alcuni erano là da così tanto tempo che erano ridotti a scheletri imbiancati, simili a quello dell’orso grigio, altri erano appena caduti e avevano ancora della terra nelle radici, mentre le loro punte verdi, immerse nell’acqua, continuavano a mettere nuovi germogli e nuovi rami. Alcuni scivolavano quasi via mentre li si stava guardando, altri erano immersi da così tanto tempo nell’acqua che le loro braccia spoglie e imbiancate spuntavano al centro della corrente e sembravano voler afferrare il battello per tirarlo giù in profondità.
In mezzo a uno scenario simile il nostro lento e ingombrante vascello si apriva la strada, rauco e arcigno, sbuffando a ogni colpo di pala. Il rumore era tale da svegliare, si sarebbe indotti a pensare, la schiera di indiani che dormono il loro sonno eterno sepolti in quell’altissimo tumulo, così antico che le radici delle querce imponenti e degli alberi della foresta circostante lo hanno raggiunto e così alto da confondersi con le alture naturali. Il fiume stesso, quasi a condividere i sentimenti di pietà per le tribù che, secoli fa, vivevano tranquille ignorando persino l’esistenza della razza bianca, dirotta il suo corso per gorgogliare vicino a quel tumulo e non c’è altro luogo dove l’Ohio scintilli di più che nell’Insenatura della Grande Tomba.

   Questo è quel che vedevo mentre stavo seduto nella mia piccola veranda e scendeva lentamente la sera a trasformare il paesaggio. A un tratto, la nave si è fermata per far scendere alcuni emigranti.
La riva boscosa lungo cui avanzavamo rendeva la notte ancora più nera. Dopo aver costeggiato per un po’ un viluppo di cespugli, siamo sbucati in uno spazio aperto dove bruciavano degli alberi. Le forme dei rami e dei ramoscelli si stagliavano contro un vivo riflesso rossastro e sembravano crescere in un braciere, ravvivato dalla brezza della sera. Lo spettacolo era di quelli descritti nelle leggende delle foreste incantate, ma era triste vedere queste nobili opere della natura consumarsi così, spaventosamente sole! Quanti anni passeranno prima che la magia che li ha creati faccia ricrescere i loro simili su questo suolo? Ma il tempo verrà e quando il susseguirsi dei secoli futuri, resuscitando questi alberi dalle loro ceneri, avrà rigenerato le loro radici, uomini irrequieti ritorneranno a queste solitudini e altri loro compagni, in città lontane che ora giacciono in fondo al mare immerse nel sonno, leggeranno, in un linguaggio oggi sconosciuto alle nostre orecchie, ma molto antico per loro, di foreste primitive dove non era mai echeggiata la scure e il cui suolo non era mai stato calpestato dall’uomo.
Mezzanotte. Il sonno è venuto a cancellare questi paesaggi e questi pensieri. E il nuovo giorno illuminava di una luce dorata i tetti di una città animata, davanti al cui ampio molo lastricato abbiamo ormeggiato il nostro battello in mezzo ad altri, alle bandiere che sventolavano, alle ruote in movimento, come se nel raggio di mille miglia non ci fosse una strada o un pezzo di terra silenziosi e solitari.
Cincinnati è una bella città accogliente, prospera e animata. Non ho visto spesso dei luoghi che a prima vista si presentino allo straniero sotto a un aspetto così felice e piacevole, con le sue casette linde, dipinte di rosso e di bianco, le strade ben lastricate, i marciapiedi ricoperti di lucenti piastrelle. E questa prima impressione non si dissipa per nulla quando la si guarda più da vicino. Le strade sono larghe e aerate, le botteghe sono eccellenti, le case sono particolarmente notevoli per l’eleganza e per la pulizia. Negli stili degli edifici moderni c’è un’atmosfera di creatività e di fantasia, che dopo la monotona piattezza del battello è eminentemente gradevole, anche perché ricorda che simili qualità esistono ancora. L’inclinazione a decorare queste case graziose e a renderle attraenti porta gli abitanti a piantare dei fiori e degli alberi e ad aver cura dei loro giardini, la cui vista, per chi cammina nella strada, è riposante e gradevole. L’aspetto della città, situata in un anfiteatro circondato da colline, in un quadro di grande bellezza, e dell’attiguo sobborgo vicino al monte Auburn, mi ha totalmente conquistato.


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